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Analisi e storia, non solo della musica, in prospettiva didattica

di Gian Nicola Spanu

31 luglio 2020

Se l’analisi pre-ottocentesca mirava a proporre autorevoli modelli allo studente di composizione[1], con la nascita, tra Otto e Novecento, della cosiddetta musicologia, la puntuale scomposizione e schematica ricomposizione della pagina musicale diviene uno strumento fondamentale dell’ermeneutica storica. Da questo momento in poi l’analisi musicale servirà non solo a formare i compositori del futuro ma soprattutto a capire i compositori del passato. Tale disciplina viene dunque accolta dalla musicologia storica per supportare (nei disegni di Guido Adler, “padre” della moderna musicologia) la ricostruzione degli stili epocali nella loro successione ed evoluzione[2]. La nuova prospettiva storicistica coinvolge anche i teorici della composizione (primo tra tutti Arnold Schönberg) ai quali l’analisi del “capolavoro” non serve tanto a fornire modelli, quanto piuttosto a superarli.

Nell’ultimo secolo molti hanno cercato di definire statuto, finalità, ambiti applicativi ecc. dell’analisi musicale, sforzi che hanno prodotto un risultato concreto: disilludere quanti speravano di trovare in essa uno strumento capace di misurare, in modo oggettivo e asettico, le opere che, nell’insieme, formano una “civiltà musicale” nel suo decorso temporale.

L’analisi del Novecento è dunque più una storia di incertezze che di certezze; e forse proprio in questo relativismo, nel “rigore dello sfumato”[3] trova la sua ragion d’essere, la libertà di aggredire, da diverse angolazioni e strategie, prodotti e condotte musicali.  E nel proliferare di metodi, modelli e scuole di pensiero, l’analisi ha mostrato una totale aderenza alle vicende della cultura e della società contemporanea, ha rivelato la sua contingente storicità.

Senza voler entrare nel merito del dibattito complesso e faticoso che impegna l’odierna musicologia, il tema del presente contributo ci impone una riflessione preliminare sulle relazioni intercorrenti tra la struttura musicale di un brano e le vicende di uomini, società, culture passate. Notiamo anzitutto, a tale proposito, come il rapporto tra storia della musica e analisi non sia affatto necessario, nel senso di ‘imprescindibile’, visto che si può analizzare un brano di cui non si conosce l’autore né l’ambito geografico/cronologico di provenienza; come pure è possibile ricostruire la storia di attività e culture musicali del passato (e chi scrive è solito farlo) basandosi unicamente su fonti indirette, esterne, come tali, all’ambito applicativo dell’analisi musicale. Sembra anche che l’analisi “formale”, disciplina a-storica e a-geografica, non si concili facilmente con una storia e una geografia della musica.

L’accordo, più che in quello della necessità, si trova sul piano dell’utilità reciproca: l’analisi garantisce scientificità e oggettività all’ermeneutica storica mentre l’analista può giustificare con la storia della musica le sue teorie e il suo stesso operare[4]. Tale complementarietà emerge già dal ruolo assegnato da Adler[5] all’analisi, utile a individuare il comune denominatore di musiche scritte in un periodo o in un ambito storicamente definito. L’utilità pratica della disciplina dipende, evidentemente, dalla quantità: se un’analisi, presa singolarmente, ha per lo storico un valore quasi nullo, una somma di “n” analisi è fondamentale per definire (su base comparativa) un certo “stile” il quale, a sua volta, distingue un dato momento della storia della musica o della storia personale di un autore.

Ciò spiega l’utilizzo (pressoché esclusivo) dell’analisi nella didattica della storia della musica per motivare l’ascrizione di un’opera allo stile di un autore o di un periodo[6] ovvero per illustrare in modo paradigmatico le peculiarità di un’epoca musicale o di una forma. In ambedue i casi è evidente, pertanto, la funzionalità dell’analisi rispetto allo stile e la funzionalità dello stile rispetto alla storia; catena di relazioni che, mediandoli, tiene spesso separati il piano dell’opera da quello delle realtà sociali che questa stessa ha generato[7] o dalle quali è stata generata e/o motivata.

 

Spostando, come auspicabile, il baricentro dell’indagine dall’opus alla società, ritengo che l’analisi possa ancora sostenere un ruolo primario nella ricerca storica. Certo, non potrà dare che risposte parziali, come parziali sono, d’altronde, tutte le strategie di avvicinamento ai fatti culturali e socio-antropologici: l’analisi osserva infatti da una prospettiva specifica l’evento musicale (la realizzazione cioè di un’azione musicale in un dato contesto spazio-temporale) per descriverne, in modo discorsivo e/o schematico, l’organizzazione dei materiali sonori; da questa descrizione si può dunque partire per immaginare le relazioni tra prodotti musicali-contesto-individui.

L’analisi ci aiuta a cogliere e concettualizzare un aspetto essenziale (soprattutto per la tradizione eurocolta) dell’evento sonoro: quello linguistico/strutturale; non dobbiamo però dimenticare che tale aspetto solo in parte costituisce il “senso” di una musica,[8] senso che chiama in causa orizzonti non solo acustici ma anche ideazionali, socio-economici, religiosi, estetici ecc., e per proprio per questo intrinseci al divenire storico. Le facoltà sensoriali e razionali dell’uomo non funzionano, è ovvio, a compartimenti stagni: nell’ordinamento del materiale musicale (la composizione che l’analisi mira a scomporre) dobbiamo quindi aspettarci di trovare tracce di umanità, apparentemente estranee al mondo dei suoni, che ci conducono a varie regioni della coscienza individuale e (per addizione) sociale. La struttura di una musica, suono socialmente e culturalmente organizzato, grazie all’analisi può così svelare interessanti isomorfismi con le strutture della comunicazione verbale e visiva,[9] può informarci sui condizionamenti imposti al suo autore dalla moda o dal mercato; da essa possiamo altresì ricavare preziose informazioni sulle dinamiche di produzione, sulle convenzioni sociali e culturali, sulla destinazione d’uso e quindi sulle funzioni di uno specifico brano.

Qualche esempio: l’analisi formale di un organum di Notre Dame, con l’individuazione delle voci stratificate che si muovono “magmaticamente” con velocità indipendente, ci aiuta a definire il concetto di creazione artistica dell’uomo medievale, incentrato sulla rielaborazione dell’esistente; da qui si può partire per parlare dei metodi di insegnamento e di ricerca scientifica, basati sulla compilazione di commentari e glosse a testi considerati autorevoli. Ricordiamo a questo proposito, come tali glosse, analogamente alle clausulae degli organa e ai tropi, potevano staccarsi dal testo-base per vivere una vita autonoma. E, come si può vedere, non si tratta di semplici coincidenze, ma indizi di un modo di pensare (e non solo la musica) diverso dal nostro (l’analisi ci aiuta anche a distinguere l’alterità di una certa cultura musicale del passato e di una qualsiasi area geografica).

L’analisi dà ragione di scelte che solo apparentemente sono compositive, ma in realtà sono culturali e sociali: l’accettazione o il rifiuto di uno specifico modello formale/linguistico non dipende unicamente da motivazioni estetiche ma anche (e soprattutto) dall’accettazione, da parte del compositore (attore poietico) o dell’ascoltatore (attore estesico), delle realtà e delle aspirazioni che quei modelli e norme evocano[10].

La paritetica discorsività che emerge dalla segmentazione analitica di un madrigale di metà Cinquecento richiama una concezione organicistica e unitaria del manufatto artistico, progettato a tavolino dall’architetto nel disegno e dal compositore nella partitura (tabula compositoria), per non parlare poi dell’idea del potere che traspare nelle formule introduttive di certa musica barocca.[11] E, terminando questa carrellata quasi casuale su possibili percorsi “a partire” dall’analisi, dalle formule stereotipe di decine di quartetti possiamo farci un’idea di quanto il mercato editoriale abbia condizionato il compositore di fine Settecento.

 

Come si è intravisto, le strade che portano dal “come” è fatta una musica alle realtà umane passate e presenti sono infinite e tutte percorribili; l’importante è non chiedere tutto all’analisi. L’analisi infatti mette in luce, non spiega; ma è anche vero che nel mettere in luce, in un certo senso spiega. Spiega esattamente ciò che l’analista vuole sia spiegato, cioè reso esplicito.[12]

Non si può dunque distinguere nettamente un piano analitico (neutro/impersonale) da uno ermeneutico (interpretativo)[13], ma i due piani, che pure in astratto possono correre paralleli, nella pratica si intersecano e si confondono. E se in teoria è possibile un’analisi attenta unicamente al livello sonoro dell’opera, nella pratica entrano in campo una quantità di riferimenti e problematiche, come si è visto, non strettamente musicali (o per meglio dire, non strettamente sonori), che l’analista non può non considerare né esserne condizionato[14].

 

Appare allora quantomeno limitato e limitante, soprattutto nella didattica, muoversi sul piano analisi–stile epocale. Un piano, per certi versi tautologico, che usa le singole opere per illustrare le caratteristiche di un insieme di opere, e il complesso di tali caratteristiche (l’accezione corrente di stile) per collocare l’opera nella storia. Dall’analisi si può invece partire, come s’è viso, alla scoperta di idee, fatti, condotte, dinamiche sociali e spirituali ecc., frammenti di storia, e non solo musicale.

E neppure, per quanto ci riguarda, si possono indicare standard operativi; spetta piuttosto all’insegnante individuare i percorsi più appropriati, adeguando alle competenze degli alunni e agli obiettivi programmati questo o quel metodo[15]. Non bisogna però pensare che l’analisi produca unicamente diagrammi e lettere greche con tanti esponenti; può essere anche un resoconto sintetico dell’evento musicale o il conteggio delle ricorrenze delle parola “amore” o “morte” in un libro di madrigali, per metterle magari in relazione al profilo delle melodie che l’accompagnano; può presentarsi anche sotto forma di quadro, edificio o poesia capace di esplicitare la disposizione dei materiali in una certa musica.[16]

Inutile forse ricordare, a questo proposito, che oltre ai sistemi di altezze (articolazione melodica e funzioni armoniche), la musica è anche timbro, colore e volume del suono, rapidità e ciclicità degli accadimenti sonori ecc.; parametri che solo pochi metodi analitici tengono in considerazione e che invece sono essenziali per definire il “senso strutturale” di un brano inteso sia come partitura, sia come evento.

Quest’ultima specificazione richiama, un’altra questione nodale: se infatti per Eggebrecht “Punto di partenza e meta dell’analisi non è la partitura ma la realtà estetica da essa intesa, l’opera sonora”,[17] è innegabile che gran parte della tradizione musicale euro-colta dipenda dalla partitura. E non solo perché questa ne garantisce l’identità e la continuità nel tempo, ma perché la possibilità di progettare sulla carta l’evento ha determinato la produzione di musiche fortemente strutturate, impensabili in una tradizione orale. In realtà il primo analista è il compositore, che nello scrivere controlla (e quindi auto-analizza) la forma del proprio pensiero musicale.  In effetti lo stesso Eggebrecht aveva in precedenza affermato come l’analisi potesse prendere le mosse dal testo musicale scritto o dalla riproduzione e dall’ascolto,[18] mentre Jean-Jacques Nattiez sembra postulare un’analisi quasi esclusivamente dalla partitura.[19] Per il musicologo canadese l’analisi è, in un certo senso alternativa all’esecuzione: messi di fronte ad partitura possiamo infatti suonarla o analizzarla. Sembra escludere una terza possibilità, suggerita invece dal Delalande e molto efficace nella didattica della storia: l’analisi delle immagini che la musica crea nell’ascoltatore. [20]

 

L’esercizio analitico, visto come una concettualizzazione, verbalizzata e/o schematizzata, dell’esperienza estesica, conduce l’ascoltatore a confrontarsi in prima persona con un passato, anche sul piano emozionale. E siccome le emozioni non sono né extra-sociali né extra-storiche, neanche esse vanno dimenticate in una didattica della storia[21]. L’analisi può, per fare un esempio, può rivelare l’origine e lo sviluppo di certe figure retorico-musicali ancora attuali, di certi modelli iconologici, nel senso indicato da Michela Garda in un recente saggio[22], per coglierne magari la rispondenza con uno specifico universo affettivo antico o moderno. Ma, come si è accennato, serve anche a marcare le differenze tra diverse culture musicali, inclusa quella dei nostri antenati, e sostenere così la consapevolezza dell’alterità. Ed è questo un fine non secondario della storia della musica, cui spetta il compito di misurare la distanza tra noi e musiche pensate e usate da società che non sono la nostra. Ciò non esclude che si possa valutare, legittimamente, anche la rilevanza e gli effetti che quelle musiche mantengono nella nostra epoca; le due prospettive dovrebbero però rimanere distinte e perfettamente controllabili per non espropriare le cose e gli uomini della propria identità storico-geografica e culturale, rimestando in un gran calderone realtà storica, emozioni, fiction televisiva, folklore e via dicendo.

 

Confermando ancora la piena libertà operativa di chi usa l’analisi musicale per parlare di storia nella sua accezione più ampia (ritengo che la storia della musica debba infatti essere sempre meno “della musica” e sempre più del versante musicale dell’uomo sociale), vorrei tornare sulla questione del metodo per illustrare, in breve, i criteri elaborati dal compositore Franco Oppo, già esposti nel convegno sull’analisi tenuto a Modena nel 1982[23]. Questo tipo di analisi, che ho sperimentato da studente e da docente, per l’estesa l’applicabilità e la semplicità d’uso rende esplicita l’organizzazione dei materiali sonori e la loro funzionalità in qualsivoglia evento musicale (riferibile a ogni genere, cultura, epoca; scritto, trasmesso oralmente o improvvisato), agevolando, nei termini indicati, ricostruzioni di senso in prospettica storica e geografica.

Ritengo, infatti, che nella didattica della storia della musica un metodo analitico debba: 1) prevedere un ambito applicativo il più vasto possibile (in modo da consentire lo studio non solo della musica tonale, ma anche del canto gregoriano o della polifonia rinascimentale, della musica di tradizione orale e di quella “contemporanea”, rock ecc.); 2) considerare, non soltanto i sistemi di altezze (melodia e armonia), bensì la funzionalità di tutti i parametri sonori (durate, timbro, dinamiche, dislocazione nello spazio, densità del suono, transitori d’attacco ecc.); 3) funzionare a prescindere dalla partitura e quindi poter utilizzare rappresentazioni non convenzionali dell’evento musicale, ricostruzioni (verbali o schematiche) di un ascolto e anche diagrammi sonologici; 4) essere sufficientemente intuitiva e di facile impiego. L’analisi, lo ricordiamo a questo proposito, serve a spiegare, a fornire semplici “schemi da completare”;[24] analisi troppo complesse, per essere troppo complete possono risultare fini a se stesse, punti di “non partenza” quindi.

La teoria analitica di Franco Oppo va compresa tra quelle generative trasformazionali[25] e, come tale, ritiene che l’organizzazione musicale del suono risponda a principi elementari e d’uso universale. In un qualsiasi brano musicale, benché non si conoscano i sistemi linguistici di riferimento, si possono pertanto individuare unità di articolazione, riconoscibili, come vedremo da un segnale iniziale e uno finale.

L’ analisi è dunque di tipo segmentativo, di chiara ascendenza chomskiana, anche se, rispetto ad analoghe[26], appare meno complicata e di facile impiego; forse perché mira non tanto a ricostruire forme e norme assolute della comunicazione musicale, quanto piuttosto a studiare nello specifico (storico e culturale) i mezzi impiegati dal musicista per delimitare, allineare, sovrapporre, raggruppare ecc. unità strutturali significative. Il metodo in questione impone un continuo rimando dalla struttura alla storia della prassi compositiva, più che a teorie generali della comunicazione.

Come il linguaggio verbale, anche quello musicale si basa per Oppo su unità elementari; a grafemi e fonemi corrispondono in musica fenomeni vibratori dotati di più qualità simultanee (in primo luogo i noti parametri, frequenza, durata, intensità e timbro, ai quali aggiungerei la dislocazione nello spazio, i transitori d’attacco o d’estensione, la “grana” ecc.). Ora, due fenomeni vibratori possono essere assolutamente identici: è sufficiente che presentino, in ugual misura, le medesime qualità acustiche; ma se una sola di queste viene modificata (per es. allungando o accorciando la durata di un suono, di un rumore o di una pausa, ovvero cambiandone la frequenza, l’intensità oppure la fonte ecc.) allora percepiamo i due fenomeni come differenti. In un contesto linguistico tali diversità (o opposizioni) sono utilizzate per formare unità significative.

Nell’ esempio 1 notiamo come la modifica di un solo parametro per volta (altezza, intensità, durata ecc.) sia capace di individuare segmenti strutturali.

 

Es. 1 (Oppo 1994: 125, fig. 1-6)

 

I singoli eventi acustici (caratterizzati da una frequenza, intensità, durata ecc.,) costituiscono per Oppo le unità minime per articolazione del discorso musicale, benché in sé non posseggano valore linguistico; come le lettere dell’alfabeto, per avere significato questi devono essere aggregati in unità, definite “di seconda articolazione”, delimitate da un segnale iniziale e uno finale. Il segnale iniziale altro non è se non un evento o un gruppo di eventi (o se si vuole, una nota o un gruppo di note) diverso (cioè in opposizione) da quel gruppo (formato sempre da uno più eventi/note) che presentandosi dopo, assume pertanto la funzione di segnale finale.

 

Es. 2 (Anonimo, Polonaise [BWV Anhang 119], in Notenbüch für Anna Magdalena Bach, batt. 1-2)

 

 

Nell’incipit della Polonaise in sol minore del Libro di Anna Magdalena Bach [es. 2], l’unità di seconda articolazione occupa le prime due battute; tale unità è individuata da un segnale iniziale, costituito da quattro note ascendenti con una figurazione puntata sul sol ribattuto della sinistra, e da un segnale finale che riconosciamo nella successione melodica la-si-do che termina con una nota lunga, una minima, che ancora non avevamo sentito e che percepiamo nella sua opposizione a quanto precede. Notiamo poi  come tale tale segnale finale venga rafforzato dal movimento del basso per crome e ancora come l’autore, che pure avrebbe potuto assegnare alla successione la-si-do la stessa figurazione puntata dell’inizio, ha preferito usare una sua variante; non l’ha fatto per evitare equivoci (l’avremmo potuto percepire infatti come nuovo segnale iniziale di qualcosa che andava ad iniziare, e di conseguenza si sarebbe attribuito valore di segnale finale alla successione si-do della stessa battuta 1).

Alla battuta 3 però questo segnale finale viene ripreso per iniziare un’ulteriore unità di seconda articolazione, la quale a sua volta si chiude alla battuta 4. Particolare attenzione va rivolta al segnale finale di questa seconda articolazione che, pur evocando quello della precedente (batt. 2), introduce tre elementi novità (e quindi di differenziazione): la successione discendente si-la-(si)-sol, la stessa terza discendente della melodia si-sol, l’ampio arpeggio che si snoda su quest’ultima nota. Confrontando a questo punto i segnali finali delle due unità di seconda articolazione (batt. 2 e batt. 4), notiamo come il secondo sia più forte, presentando maggiori elementi di diversità. Ed è più forte perché deve chiudere non solo un’unità di seconda ma anche una di terza articolazione, formata a sua volta dalle prime quattro battute del brano.

Si capisce, a questo punto, che le unità di seconda articolazione si possono raggruppare in unità di terza, che a sua volta formano unità di quarta e così via crescendo. L’aggregazione è assolutamente libera e solo in parte gerarchica: può darsi infatti il caso di un’unità di quarta articolazione formata da due unità di terza, più una di seconda (analogamente, nel linguaggio scritto un paragrafo può comprendere due periodi più una proposizione); inoltre è talvolta possibile che un evento singolo (una nota o un accordo) faccia articolazione a sé (come un’interiezione): è il caso dell’accordo di mi bemolle che, vera e propria interiezione, apre le 15 variazioni e fuga per pianoforte di Beethoven (op. 35) sul tema dell’eroica.

Il dosaggio, per così dire, dell’“energia”, dei segnali finali (cadenzali) è estremamente curato nella musica occidentale e, in linea di massima, un’articolazione di ampiezza maggiore è chiusa da un segnale più forte di quello che chiude le unità di ordine inferiore; una sinfonia termina spesso con una lunga reiterazione della tonica o della cadenza V-I, proprio perché si devono chiudere tutte le unità d’articolazione interne. Tornando quindi alla nostra Polonaise [es. 3], notiamo che il segnale conclusivo dell’intero brano (batt. 19-20) è simile a quello che chiudeva la prima unità d’articolazione, ma notevolmente rafforzato anzitutto dall’iterazione del re con la nota di volta (batt. 19) e quindi dal salto di ottava discendente alla melodia nella battuta 20, dall’ultima nota del basso (minima) dal prolungamento del punto coronato. In effetti il compositore avrebbe potuto senza difficolta omettere l’intera battuta 19, che però gli è utile a ribadire la pregnanza dell’ultimo segnale finale che delimita un’unità di quarta articolazione.

 

Es. 3 (Anonimo, Polonaise [BWV Anhang 119], in Notenbüch für Anna Magdalena Bach, batt. 18-20)

 

 

Già da queste minime, e di certo non esaurienti, indicazioni si nota come tale metodo analitico presenti il vantaggio di modellarsi sull’opera. In questi esempi abbiamo fatto riferimento alla partitura, ma analoghe osservazioni si sarebbero potute ricavare da un attento ascolto, e si potrebbero altresì proporre a persone non in grado di leggere la musica (utilizzando magari un semplice schema da proporre o prima o durante o dopo l’ascolto). A seconda del caso è possibile soffermarsi sulle singole unità di articolazione, o piuttosto dedicarsi a quelle di ordine più ampio; come quando, analizzando un romanzo, decidiamo di illustrare gli elementi essenziali della diegesi ovvero soffermarci sull’analisi dettagliata del periodare.

Dipende, come s’è detto, dal contesto didattico, dai prerequisiti degli alunni, dagli obiettivi che ci proponiamo: potremmo utilizzare il lezioso sviluppo della modesta polonaise per commentare la “galanteria” dell’arte di metà Settecento, le ben definite formule cadenzali per spiegare i principi (storicamente circoscritti) del linguaggio tonale, la semplicità strutturale e tecnica del brano per parlare del consumo domestico e dilettantistico della musica nella società borghese del XVIII secolo, o ancora la funzione della figura retorico-musicale dell’anabasi (successione melodica ascendente) e della catabasi (figura melodica discendente) nella costruzione del clima emotivo del brano e così dicendo verso infiniti, possibili, orizzonti.

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

 

[1] Eggebrecht 1987: 178.

[2] Strohm 1990: 62.

[3] La definizione è di Jean Molino in Delalande 1993: 226 n. 4.

[4] Bent-Drabkin 1990: 3-4.

[5] Adler 1911.

[6] Sul concetto di Stile epocale cfr. Knepler 1989: 129-156

[7] L’antropologo Josep Martì propone in una recente pubblicazione (2000) di andare oltre il “valore artistico” della musica e di considerarla piuttosto nella sua capacità generatrice di realtà sociali.

[8]  Differente è la posizione di Hans H. Eggebrecht per il quale “Il senso della musica è racchiuso nella sua struttura e il contenuto della musica nel suo senso; ogni affermazione scientifica sulla concreta realtà musicale deve quindi passare attraverso la sua ricostruzione” (Eggebrecht 1987: 152).

[9] Cfr Garda 1998: 164.

[10] Illuminante a questo riguardo la riflessione sulle “musiche rifiutate”, in Martí 2000: 95-116.

[11] Stefani 1974, Stefani 1975.

[12] Sulla soggettività e sull’incapacità dell’analisi di fornire risposte complete v. Eggebrecht 1997: 374 per il quale l’analisi è un’operazione selettiva che non può ambire alla totalità”.

[13] Stefani 1976: 31 distingue tra analisi strutturale e ermeneutica (interpretazione come identificazione esistenziale con lo spirito dell’opera).

[14] Mastropasqua 1998: 152.

[15] Cfr. Santi 199: 34.

[16] Vedi le analisi proposte da Sciarrino (1998) che non partono dalla partitura ma da gesti e immagini sonore che svelano, con immediata efficacia, le relazioni tra le varie tipologie di organizzazione del materiale sonoro e le strutture della comunicazione artistica, e non solo.

[17] Eggebrecht 1997: 378.

[18] Eggebrecht 1987: 168-169.

[19] Nattiez 1989: 61-62.

[20] Delalande1993: 234 n. 11. Si può condurre un’analisi anche muovendo da spettrogrammi sonori, come fa Bernard Lortat-Jacob (1996: 128-144) a proposito del canto polivocale di Castelsardo, o da partiture “automatiche”, generate da alcuni programmi di video-scrittura musicale.

[21] Tra le varie tipologie di analisi “ermeneutiche” Mastropasqua (1998: 152) annovera quella che cerca “un punto d’incontro tra le dimensioni concettuale, emotiva, uditiva dell’autore e del suo tempo, e le nostre.

[22] Garda 1998.

[23] Oppo 1994.

[24] Cfr. Paul Feyarabend, Dialogo sul metodo, Bari 1989, citato in Mastropasqua 1998: 154.

[25] Ian Bent riduce a tre i principali orientamenti analitici: quello riduzionistico (schenkeriana), quello di rilevamento statistico delle ricorrenze e quello generativo-trasformazionale (Strohm 1990: 63; n. 5).

[26] Una compendiaria trattazione di tali analisi si trova in Bent-Drabkin 1990: 89-96.

Gian Nicola Spanu

Si è occupato di musica e musicisti del XVII secolo in Italia e in Spagna pubblicando diversi saggi sulla musica nella Sardegna barocca e sul compositore del XVII secolo Cristóbal Galán. Ha inoltre firmato la parte relativa al periodo compreso fra i primi secoli dell’era cristiana e il Seicento per una Storia della musica curata da L. Pestalozza e R. Favaro (Milano, Warner Bros – Carish 2000) e ha collaborato alla realizzazione del Lessico della letteratura musicale italiana. 1490-1950 (Firenze, 2007).

Bibliografia più che essenziale

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Baldo 1998

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François Delalande, Le condotte musicali. Comportamenti e motivazioni del fare e ascoltare musica, a cura di Giovanna Guardabasso e Luca Marconi, Bologna, Clueb, 1993

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Michela Garda, “Topoi retorici ed ermeneutica musicale: un problema di metodo”, in Musical Signification, Between Rhetoric and Pragmatics (Proceedings of the 5th International Congress on Musical Signification) a cura di Gino Stefani, Eero Tarasti, Luca Marconi, Bologna, Clueb, 1998, pp. 159-169.

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Georg Knepler, La storia che spiega la musica, Milano, Ricordi Unicopli, 1989 (tit. or. Geshichte als Weg zum Musikverständnis)

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Bernard Lortat Jacob, Canti di Passione. Fotografie di Bachisio Masia, Lucca, LIM 1996

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Jean-Jacques Nattiez, Musicologia generale e semiologia, edizione italiana a cura di Rossana Dalmonte, Torino, EDT, 1989 (tit. or. Musicologie générale et sémiologie)

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Piero Santi, “Analisi e storia della musica: un’integrazione pedagogica.” Analisi, X, n. 29, 1999, pp. 34-36

Sciarrino 1999

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Gino Stefani, Musica barocca. Poetica e ideologia, Milano, Bompiani 1974

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Gino Stefani, Musica barocca. 2. Angeli e sirene, Milano, Bompiani 1975

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Gino Stefani, La parola all’ascolto, Bologna, Clueb, 2000

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Reinhard Strohm, “Musical Analysis as Part of Musical History”, in Tendenze e metodi della ricerca musicologica (atti del convegno internazionale di Latina, 27-29 settembre 1990), a cura di Raffaele Pozzi, Firenze, Olschki, 1995, pp. 61-68.