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Insegnare uno strumento nella Scuola Media ad Indirizzo Musicale: riflessioni sulla “complessità”.

Luigi Vichi

30 settembre 2017

Ci sono da fare i suoni, i volumi, gli equilibri: abbiamo un’orchestra provvista di marimba, xilofono, vibrafono…batteria e poi clarinetti e pianoforti digitali, e il coro. Le chitarre (e i pianoforti) devono essere amplificate: il tecnico chiede ai ragazzi di suonare.“Suona…suona…!” e esibisce verso i chitarristi (ma poi stesso trattamento sarà riservato ai pianisti, con modalità del tutto analoghe) un gesto che mi ricorda il collega appena arrivato a scuola che mi chiede … ”così tu insegni chitarra?” e mostra quello stesso gesto, con il polso basculante e la mano raccolta.
I ragazzi non suonano così. A fare scattare il sollecito del tecnico è stata l’applicazione fedele e corretta del tocco, sia esso appoggiato oppure libero, atto a pizzicare le corde. E quel tocco non produce il suono, la quantità di suono che il tecnico avrebbe voluto. Il fatto è che i ragazzi non riescono a mettere in pratica le indicazioni del tecnico, sono timorosi, impacciati e provano, timidi, emettono risatine e subito si fermano. La situazione è interessante perché vedo i nostri alunni sotto una luce nuova: sembrano incapaci di agire sullo strumento in modo libero e spontaneo.
L’attenuante è che sono solo al termine del loro primo anno di studio. Non hanno sperimentato prima di ora, e per quanto mi riguarda rifletto sul fatto che non ho pensato a “insegnarlo”, quel “semplice” gesto (che pure è gratificante) e sono inibiti dai primi rudimenti di tecnica strumentale, incapaci di cercare una gestualità diversa. Sento lievemente un malessere.
Siamo su un palco dicevo, il contesto in cui ci troviamo è di rilievo e anche di prestigio e mette in evidenza la crescita dell’indirizzo musicale in questi dieci anni di attività: suoniamo all’interno della rassegna cittadina “Monumenti Aperti”, nel chiostro della biblioteca della Facoltà di Architettura dell’Università di Cagliari e le nostre esibizioni scolastiche (partecipiamo alla rassegna da una manciata di anni) sono apprezzate, anche dai musicisti, e non solo dai colleghi. Abbiamo un coro che si esibisce con l’orchestra, composto da alunni della scuola, ma anche da genitori, da personale di segreteria, da collaboratori, da insegnanti della scuola secondaria e primaria che un autorevole e competente collega di strumento cura e istruisce. Si respira serenità. Siamo, ci dicono, il fiore all’occhiello della scuola, e dalla Scuola siamo sostenuti. Mi chiedo, allora, perché quel – lieve – malessere. Dove o cosa mi sono perso: dov’è il nodo, qual è il problema. Perché un problema, in fondo, sento che c’è.
Due considerazioni, dunque. La prima è pertinente alla scarsa attitudine alla ricerca (all’esplorazione dello e sullo strumento) che gli alunni dimostrano, forse vincolati a norme troppo prescrittive che vengono percepite come ineludibili. La seconda è relativa al tipo di percorso didattico sullo strumento, all’approccio tecnico che tale situazione lascerebbe supporre: lineare, da ciò che si ritiene facile al difficile (dal semplice al complesso), per gradi e per accumulazione.
Ovvero la scomposizione dei gesti (complessi) che utilizziamo quando suoniamo in unità più piccole e semplici da ricompattare in seguito per ottenere il “modello” originario, e reale (su questo ultimo aspetto tornerò brevemente in seguito).
Dunque, qual è il problema? Ho sempre ricercato quali principi educativi e didattici del fare scuola (direzioni originali di senso, secondo J. Bruner (1) quelli connessi ai concetti di “Relazione” e di “Narrazione”. Relazione (2) ovvero centralità del soggetto e dell’esperienza (bisogno di esserci, del corpo e con il corpo) che diventa elemento fondante e paradigmatico dell’attività didattica e relazione certo come valore da ricercare nella pratica strumentale. Quindi Narrazione (3), certamente come pratica per favorire la- e entrare nella – relazione – per questo gli uomini raccontano storie, per dare forma al disordine dell’esperienza (4) – ma anche come metodologia di trasmissione del sapere che diventa (il sapere narrato) attendibile attraverso la pragmatica stessa del suo esistere intersoggettivamente nel campo all’interno del quale viene creato, usato, scambiato (5), un sapere dunque connesso all’ esperienza, all’esperire e allo sperimentare. Ho scoperto in Jens Kienbaum (6) un diverso approccio allo studio della chitarra, concettualmente vicino alle sperimentazioni, ad esempio, di Donatella Bartolini (7), che prende le mosse da una gestualità complessa: non più dunque la mano destra che, solamente, pizzica le corde con indice e medio in alternanza in “esercizi sulle corde a vuoto” per giungere in seguito a melodie un po’ striminzite, ma un corposo pollice che disegna fraseggi sui bassi mentre indice, medio e anulare simultaneamente strappano accordi sulle corde superiori dando luogo a sonorità anch’esse complesse, piene e corpose, intriganti. Ecco, allora, forse tutto ciò ancora non è sufficiente per liberare quei polsi e quelle mani (quelle menti?) per permettere che agiscano sulle corde con gesti da cercare: c’è bisogno anche di contenuti che contemplino e prevedano attività liberatorie, meno prescrittive, che valorizzino e accolgano quegli aspetti e quegli atteggiamenti del fare musica spesso ritenuti inadeguati, tipici ad esempio dell’auto-didatta. C’è bisogno di attività divergenti, creative (8), che possano contribuire a fare percepire agli alunni la possibilità e anzi la necessità di osare, di seguire i propri percorsi, di arrangiarsi. Bisogna stimolare motivazione e modalità di apprendimento estese e trasversali con una didattica sui processi piuttosto che sui prodotti (9), che possa inoltre aiutare gli alunni a impossessarsi di quelle capacità metacognitive irrinunciabili, soprattutto nella scuola dell’obbligo, per la formazione della persona. Le attività creative hanno una grande potenzialità educativa e devono essere considerate il fondamento dell’educazione musicale di base, trovando un equilibrio tra compiti creativi, esecutivi e di ascolto, afferma M. Biasutti (10). Allora se guardo indietro a questi ultimi dieci anni di esperienza nella scuola media a indirizzo musicale – anni di indubbia crescita personale e, ritengo, collettiva e dunque di forte scambio di esperienze, professionalità e competenze con i colleghi che, come ho già avuto modo di affermare, hanno condotto gli alunni a fare esperienze uniche, davvero rilevanti, con esibizioni in luoghi e in contesti di prestigio – vedo affiorare un approccio sempre più specialistico all’insegnamento; un approccio che via via si è fatto sempre più chitarristico e tecnico con il conseguente affievolimento di quelle pratiche creative (11) e di quegli atteggiamenti divergenti sopra menzionati: che appunto richiedono di investire sul percorso, di scommettere sull’incertezza del risultato e, ed è uno tra gli aspetti più problematici – e divergenti – in una società come quella attuale, che richiedono tempo (12). Questo, mi viene da pensare, mi sono perso. Forzo la riflessione e la stimolo, il rischio è di estremizzare: ma mi accorgo che non è tutto qui.
Non si esaurisce tutto all’interno dell’aula di chitarra o di musica di insieme. Tali aspetti ne racchiudono altri, si ricollegano cioè ad una struttura della Scuola (la scuola con la S maiuscola, in generale) chiara e forte, che presuppone – e con la sua mole in quella direzione spinge i propri attori – un approccio alla conoscenza lineare, rigido e cristallizzato. Edgar Morin (13) ci spiega che questo approccio al sapere e alla conoscenza è frutto della segmentazione e parcellizzazione della realtà che conduce e insieme è sostenuta da quella che definisce iperspecializzazione: da ciò dunque discende la grande rilevanza che hanno a Scuola le “discipline” a discapito, ad esempio,
delle “competenze” (14) che per natura sono “liquide”, trasversali alle discipline. E (anche) da questa importanza e fiducia nelle discipline e nella iperspecializzazione credo derivino certi paradossi scolastici talmente grandi che rischiano di passare inosservati. Così ad esempio assistiamo nella scuola a progetti – racchiusi all’interno di un certo numero di ore, a seconda dei fondi a disposizione e della disponibilità dei docenti – che promuovono metacognizione e cittadinanza attiva (quella con la C maiuscola, di ampio respiro, che ci aiuta a comprendere l’avventura umana (15), non solo quella dei diritti, dei precetti e dei divieti) come valori irrinunciabili da perseguire e contemporaneamente ad esami di licenza media in cui il peso delle materie è talmente ingombrante e oberante che offusca e inibisce la capacità (le competenze) degli alunni di mettere in gioco la propria personalità e maturità, i propri percorsi di apprendimento, la propria visione del mondo e della realtà, che per natura è una visione olistica e, spesso, divergente.
Assistiamo alla discussione di tesine in cui i collegamenti da una materia all’altra appaiono forzati e pretestuosi, lontani dalla complessità della realtà e dai problemi della società, lontani dalle esperienze personali di vita. Se avranno fortuna scopriranno l’inganno, gli alunni, grazie a insegnanti illuminati, e così alle Superiori o all’Università, se avranno fortuna appunto. Ancora, ci troviamo calati in situazioni discriminanti, dunque insostenibili che, sempre la Scuola e la sua Struttura (la scuola dell’Inclusività, la scuola di tutti e di ciascuno) paradossalmente, con l’enorme peso di discipline e iperspecializzazione rende accettabili e perfino normali: come accade ad esempio per l’iscrizione all’indirizzo musicale della scuola media che deve passare attraverso una selezione di merito; e come accade – e forse la questione è ancora più strabiliante – per i Licei Coreutico –Musicali. Secondo la logica delle selezioni il percorso virtuoso (?) inerente gli studi musicali dovrebbe prevedere: selezione per l’ingresso alla scuola media ad indirizzo musicale e selezione per l’ingresso al liceo coreutico-musicale che finalmente accompagna alla selezione per entrare in Conservatorio. Ovvero si chiederebbe a un bambino in uscita dalla quinta elementare di avere già chiaro il proprio percorso scolastico, o quantomeno di scegliere se investire sulla musica o meno. Ritengo a questo punto, in chiusura di queste riflessioni scaturite dal mio ruolo di insegnante nella scuola media, doveroso e importante entrare in modo più particolareggiato nel merito della questione delle selezioni per l’accesso all’Indirizzo musicale, argomentare ciò che, anche dal punto di vista dell’applicazione della norma, mi sembra creare qualche problema. Dunque, i dubbi sulla legittimità della prassi della selezione per merito, comunemente adottata nelle scuole medie ad indirizzo musicale, nascono da una lettura del D.M. 6 agosto 1999, e in particolare – ma non solo – dall’articolo 2 in cui si danno appunto disposizioni sulla formazione delle classi dell’indirizzo musicale: che, viene esplicitato, deve essere in linea con la formazione generale delle classi. Ebbene non può essere che sussista nel decreto una così profonda incongruenza concettuale, addirittura all’interno di uno stesso periodo: se la classe dell’indirizzo musicale dovesse essere formata tramite selezione (in più selezione in base al merito e alla predisposizione, come appunto comunemente si ritiene e comunemente accade), non potrebbe sottostare contemporaneamente ad altri criteri (quelli generali di formazione delle classi, che prevedono eterogeneità degli alunni per genere di appartenenza, fasce di rendimento e presenza di alunni certificati). Ecco l’articolo 2: Le classi in cui viene impartito l’insegnamento di strumento musicale sono formate secondo i criteri generali dettati per la formazione delle classi, previa apposita prova orientativo – attitudinale predisposta dalla scuola per gli alunni che all’atto dell’iscrizione abbiano manifestato la volontà di frequentare i corsi di cui all’art. 1. La prova orientativo attitudinale ritengo, semplicemente, debba avere lo scopo di orientare la composizione delle nuove classi dell’indirizzo musicale secondo, appunto, i criteri generali di formazione, e la loro suddivisione nei 4 gruppi strumentali, in base agli alunni che all’atto dell’iscrizione abbiano manifestato la volontà di frequentare i corsi. E qui ci si deve fermare. Mi sembra, cioè, troppo far discendere dal succitato decreto il fatto che detta prova debba essere intesa, in ingresso, come atta a selezionare i più meritevoli. Una prova insomma che gli alunni devono  sostenere e superare per essere ammessi alla frequenza dell’indirizzo musicale: dovrebbe essere sufficiente, secondo la mia lettura del decreto, la volontà di frequentare i corsi in questione, espressa all’atto dell’iscrizione. Credo che non evidenziare e non problematizzare questo aspetto (quello della selezione per merito), accettarlo come elemento “neutro”, connaturato all’esistenza stessa dell’indirizzo musicale, oltre a rappresentare una mistificazione, un inganno concettuale, leda il diritto stesso allo studio e, fondamentalmente, il diritto di
autodeterminazione.
La riforma del pensiero è una necessità democratica chiave: formare cittadini capaci di affrontare problemi del loro tempo; frenare il deperimento democratico, che è suscitato in tutti i campi della politica dall’espansione dell’autorità degli esperti, degli specialisti di tutti i tipi, che limita progressivamente la competenza dei cittadini. Questi sono condannati all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene che sappiano, ma la cui intelligenza è miope, perché parcellizzata e astratta. Lo sviluppo di una democrazia cognitiva è possibile solo all’interno di una riorganizzazione del sapere, che richiede una riforma di pensiero volta non solo a separare per conoscere, ma anche a interconnettere ciò che è separato e nella quale rinascerebbero in modo nuovo le nozioni frantumate dal frazionamento disciplinare: l’essere umano, la natura, il cosmo, la realtà (16).

Luigi Vichi

Si è diplomato in Chitarra sotto la guida del Maestro Andrea Orsi e in seguito ha seguito per due anni i master chitarristici del maestro François Laurent. Contestualmente si è Laureato al DAMS di Bologna con una tesi dal titolo “I metodi per chitarra nell’Ottocento in Italia”, seguito dal Prof. Renato Di Benedetto.
Ha conseguito il diploma di Didattica della Musica presso il Liceo Musicale “Orazio Vecchi” di Modena e il diploma di Specializzazione per l’Istruzione Secondaria (SSIS) presso l’Università di Bologna, dove si è anche specializzato per l’Handicap.
Ha conseguito al Conservatorio di Cagliari l’abilitazione per l’insegnamento della Chitarra. Ha svolto laboratori musicali e attività di formazione nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria e, per due anni, insieme alla pianista Maria Teresa Teatini, un laboratorio musicale nel braccio femminile delle carceri “Dozza” di Bologna. Insegna Chitarra presso la Scuola Media ad Indirizzo Musicale “G.B.Tuveri” di Cagliari, dopo essere stato per diversi anni insegnante di Musica e di Sostegno presso gli Istituti Scolastici Secondari di primo e secondo grado.

Bibliografia

1 Cfr. Jerome Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1997
2 Cfr. Piero Bartolini, L’esistere Pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1998, pag. 41
3 Cfr. Alessandro Antonietti, Simona Rota, Raccontare l’apprendimento, Raffaello Cortina, Milano 2004
4 Cfr. Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, pag.107
5 Cfr. Marco Dallari, Lo specchio e l’altro, La nuova Italia, Firenze 1990, pag.48
6 Jens Kienbaum, Hans Werner, Abenteuer Gitarre. Eine Gitarrenschule fur Einzel – Schul – und Gruppenunterricht
sowie zum Selbststudium, AMA Verlag, 2002
7 Cfr. Donatella Bartolini, La frammentazione del senso musicale: l’apprendimento strumentale tra linearità e
complessità, in AA.VV., Insegnare uno strumento. Riflessioni e proposte metodologiche su linearità/complessità, a cura
di Anna Maria Freschi, EDT, Torino 2006.
8 Cfr. Michele Biasutti, Elementi di didattica della musica. Strumenti per la scuola dell’infanzia e primaria, Carocci
Faber, Roma 2015, pag.105:
Lo studio della valutazione della creatività musicale si è sviluppato dagli anni settanta sotto l’influsso delle
teorizzazioni di Guilford (1967) sulla creatività in generale, che considerano il pensiero divergente un concetto
multidimensionale caratterizzato dalle seguenti quattro abilità: originalità, fluidità, flessibilità ed elaborazione.
Cfr. Michele Biasutti, Elementi di didattica della musica. Strumenti per la scuola dell’infanzia e primaria, Carocci Faber,
Roma 2015, pag.105
9 Cfr. tra altri, Michele Biasutti, cit., pag.118
10 Ibidem
11 Per un approfondimento su creatività e musica segnalo il testo di John Paynter, Suono e struttura. Creatività e
composizione musicale nei percorsi educativi, E.D.T., Torino 1996.
12 Segnalo a questo proposito l’agile testo di Marc Augè, Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione, Castelvecchi –
Irruzioni, Roma 2016.
Credo che l’educazione – per riprendere questa parola – dovrebbe essere considerata in rapporto al tempo. Tale
rapporto infatti è essenziale nelle relazioni sociali, delle quali tempo e spazio sono le dimensioni simboliche e
imprescindibili(…). L’arte di calcolare il tempo, di prendersi il proprio tempo, al giorno d’oggi è un’arte sempre più
ardua da praticare a causa dei nuovi mezzi tecnologici che fanno vivere in un mondo di spontaneità immediata, nella
dimensione dell’istantaneità. Ritengo che in questa istantaneità risieda un pericolo, perché la relazione fra le persone
richiede tempo (…). Il mio ideale di conoscenza umana passa certamente per l’intuizione, ma ha bisogno di riflessione.
L’ideale di conoscenza, che è lo scopo supremo dell’educazione, deve dunque annoverare in sé l’arte di padroneggiare
il tempo. (pag. 21)
13 Cfr. Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2000
14 E proprio verso un “curricolo per competenze” la nostra scuola sta muovendo i primi passi. A questo proposito cfr.
Franca Da Re, La didattica per competenze, Pearson, 2013, pag.19:
Se la competenza, come recita la Raccomandazione del Parlamento Europeo del 2008, è < comprovata capacità di
utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello
sviluppo professionale e personale >, ovvero “sapere agito” in contesto significativo, si comprende che perseguire
competenze presuppone un insegnamento che travalica la divisione disciplinare: non esistono infatti problemi e
situazioni che si possono affrontare mobilitando un solo sapere disciplinare (…)..
15 Cfr. Edgar Morin, Sette lezioni sul pensiero globale, Rafaello Cortina Editore, Milano 2016.
16 E. Morin, La testa ben fatta, cit., pag. 108