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Il docente sufficientemente buono

di Piera Bagnus

31 luglio 2021

 

Là dove c’è fiducia o attendibilità, vi è uno spazio potenziale che può diventare un’area infinita di separazione che il lattante, il bambino, l’adolescente, l’adulto possono creativamente colmare con il gioco, che con il tempo diventa il godimento della eredità culturale.”

(Winnicott, Gioco e realtà)

Nell’ambito delle scienze dell’educazione, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, prese il via una fase di revisione delle esperienze condotte nel variegato mondo delle Scuole nuove, stagione che si caratterizzò per un inedito approccio puerocentrico ed in cui, per la prima volta, assunsero rilievo i bisogni e gli interessi dei discenti, l’attenzione ai tempi ed ai modi dell’apprendimento, la personalizzazione educativa.

Soprattutto negli Stati Uniti si delinearono due approcci – entrambi convinti di poter indicare la strada da seguire “dopo” Dewey1 – che, riprendendo i due differenti orientamenti già presenti sin dagli albori del secolo, quello di matrice comportamentista e quello ispirato dal cognitivismo, videro in Skinner e Bloom da un lato ed in Bruner ed Ausubel dall’altro, gli ispiratori delle “pedagogie dell’insegnamento” e di quelle “dell’apprendimento”. Tanto le prime si dedicarono alla “ricerca di strategie più efficaci per migliorare la qualità dell’insegnamento, puntando alla razionalizzazione e programmazione die processi didattici, alla definizione di rigorose tassonomie, all’attivazione di sistematiche e ricorrenti procedure di verifica e valutazione2, quanto le seconde intesero “rafforzare le potenzialità conoscitive del soggetto, esaltandone le capacità di autoapprendimento [e] si interessarono soprattutto all’indagine delle strutture mentali attraverso cui l’apprendimento si svolge e si moltiplica3.

Significativo il differente profilo che il docente assunse nei due modelli: se nelle pedagogie dell’insegnamento era impegnato in una forte razionalizzazione e progettazione dell’intervento didattico, attraverso l’articolazione di unità di apprendimento i cui esiti dovevano essere osservabili e misurabili, nelle pedagogie dell’apprendimento l’attenzione si spostò dai prodotti ai processi, impegnando il docente in azioni di facilitazione della consapevolezza cognitiva e di valorizzazione della creatività. Si introdussero anche nuovi strumenti valutativi a carattere qualitativo e narrativo con cui monitorare e descrivere il percorso di crescita degli studenti, più che misurarne la presunta oggettività.

Forte impulso a questa prospettiva giunse dagli esponenti del costruttivismo e del costruttivismo sociale: muovendo da un’idea di apprendimento come riorganizzazione del proprio pensiero sulla base dell’esperienza, ovvero come processo epistemico che connette i prodotti culturali con la struttura della mente, giunsero a riconoscere il ruolo determinante del contesto socioculturale in cui esso ha luogo, ovvero dell’interdipendenza fra sviluppo cognitivo e relazioni sociali.

Proprio sulla prospettiva relazionale convergono oggi tutti i modelli della mente che riconoscono una matrice affettivo-emotiva ed intersoggettiva ai processi di apprendimento, grazie agli apporti delle osservazioni condotte sulle interazioni precoci madre-bambino e sui progressi delle neuroscienze.

In ambito psicologico è stata la teoria delle relazioni oggettuali a determinare il superamento del modello pulsionale psicanalitico a favore di studi sulle dinamiche relazionali, a cominciare da quelli sulla relazione primaria. Con Melanie Klein, Donald Winnicott e Margaret Mahler per la prima volta si riconobbero le relazioni quali elementi strutturanti della vita mentale della persona; con la teoria dell’attaccamento John Bowlby dimostrò che l’evoluzione delle funzioni psichiche è strettamente connessa alla qualità dell’incontro soggettivo.

È scontato affermare che la relazione non coincide con l’educazione, seppur ne rappresenti un presupposto ineludibile quale contenitore entro cui il gesto educativo ha luogo. La relazione formativa, poi, rappresenta una tipologia specifica all’interno della relazionalità umana: per sua natura asimmetrica e complementare, si regge su una specifica intenzionalità e finalità metabletica di cui il docente dev’esser consapevole per promuovere cambiamento e crescita sul piano cognitivo, motorio, emotivo-affettivo e relazionale. Come scrive Demetrio 4 l’atto dell’educare è di per sé trasformativo in quanto tensione continua verso il cambiamento; tuttavia, ciò che differenzia l’approccio educativo dalle altre forme di evoluzione è la componente riflessiva e di autoconsapevolezza richiesta al soggetto che sta cambiando.

A partire dagli anni Ottanta, in linea con le suddette pedagogie dell’apprendimento, le ricerche sulla metacognizione da Flavell 5 in poi hanno evidenziato la necessità di insegnare agli allievi a conoscere e controllare le proprie strategie di pensiero e di apprendimento al fine di ottenere migliori performances, riconoscendo il ruolo dei fattori emozionali ed affettivi nelle varie abilità cognitive. La consapevolezza del ruolo delle rappresentazioni mentali nella costruzione delle conoscenze ha orientato da allora molta letteratura psicopedagogica ad occuparsi di strategie di controllo dei propri modelli mentali, di consapevolezza del modo personale di costruire conoscenza, ovvero del monitoraggio del proprio stile di apprendimento, per renderlo via via più efficace nei diversi ambiti disciplinari. Insegnare ad imparare rappresenta il mandato dei docenti del terzo millennio, slogan che rischia tuttavia di rimanere vuoto di contenuti se non viene metabolizzato dai professionisti della formazione e tradotto in coerenti prassi didattiche che trovano negli approcci cooperativi, agiti per lo più in contesti laboratoriali, modelli orientati al successo formativo.

Da anni mi dedico allo studio della relazione docente-discente cercando di metterne in luce l’evoluzione, alla luce dei cambiamenti sociali che hanno segnato l’ultimo secolo. In questa prospettiva intendo analizzare la relazione docente-allievo rileggendo le teorie di Winnicott e Bowlby in chiave pedagogica, ovvero considerando in quale modo i caratteri riconosciuti alla madre sufficientemente buona ed al suo ruolo di base sicura possano trovare riscontro nella postura di un docente efficace, che si muove con consapevolezza all’interno di una particolarissima area transizionale.

Rispetto alla sua prima formulazione degli anni Cinquanta, – che interessava il rapporto fra me e non-me nello sviluppo del bambino – vent’anni dopo Winnicott 6 rielaborò il concetto di area transizionale definendola“spazio potenziale” in cui avviene l’incontro tra individuo ed ambiente, fra oggetto soggettivo ed oggetto percepito oggettivamente, spazio determinato dalle esperienze che l’essere umano compie sin dai primi momenti della vita. È il mondo in cui abitano gli oggetti transizionali, l’area intermedia “tra il pollice e l’orsacchiotto”, ma anche l’area del gioco e dell’esperienza culturale.

È il luogo in cui possono coesistere interno ed esterno, madre e bambino, realtà e fantasia. Mi piace collocare in questo spazio anche l’esperienza di insegnamento- apprendimento in cui il docente (come la madre per il neonato o il terapeuta per il paziente) promuove il passaggio da uno stato di prevalente dipendenza ad uno di progressiva autonomia del discente offrendogli un setting protetto in cui sperimentare nuove di modalità di essere, essere con l’altro e con il mondo. Non è forse compito del docente promuovere l’incontro fra l’allievo ed i prodotti della cultura, fra mondo interno e realtà circostante? Non è la ristrutturazione delle proprie mappe mentali attraverso la riflessione promossa dal docente a costituire l’essenza del processo di apprendimento? Non è forse attraverso la didattica laboratoriale e cooperativa che possono fecondarsi reciprocamente lo sviluppo intrapsichico con quello intersoggettivo?

Verso la metà degli anni Settanta Bruner introdusse nel linguaggio psicopedagogico il termine scaffolding, metafora delle strategie di sostegno (letteralmente “impalcatura”) che il docente, o una persona esperta, offre ad un’altra meno capace per condurla a maturare le competenze necessarie atte a svolgere un determinato compito in autonomia.

È attraverso la prossimità, l’esempio, l’utilizzo di istruzioni efficaci e la collaborazione che si verificano le condizioni per poter progressivamente smantellare quest’impalcatura, permettendo all’allievo di maturare una maggior indipendenza. Vari studi condotti nell’ambito della didattica musicale, per lo più su docenti impegnati in attività di direzione, hanno evidenziato quali indicatori di efficienza didattica il contatto oculare, l’espressività del viso, la prossimità al gruppo, la precisione nella gestualità, l’utilizzo di un linguaggio essenziale ma preciso, la variazione di modulazione nella voce. 7

Vent’anni dopo Bruner altri studiosi affiancarono al concetto di scaffolding quello di fading 8, dissolvenza”, intendendo con esso la riduzione degli aiuti al fine di rinforzare la capacità di dare risposte autonome, pur continuando a garantire vicinanza emotiva oltre che cognitiva. Come nella relazione primaria anche in quella formativa il docente deve permettere all’allievo di aver fiducia rispetto alla propria attendibilità: se attraverso l’amore della madre il bambino sperimenta la fiducia che gli permette di accettare la separazione fra non-me e me, così mediante una didattica efficace il docente offrirà all’allievo l’opportunità di muoversi da forme di apprendimento eterodiretto ad esperienze di autocostruzione del sapere, all’interno di quello spazio che notoriamente Vygotskij ha definito zona di sviluppo prossimale 9 .

Nella didattica strumentale da più parti è stata evidenziata l’efficacia delle strategie di modeling per rafforzare il senso di auto-efficacia negli studenti, definita da Bandura come la convinzione delle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessarie per gestire linguaggio essenziale ma preciso, la variazione di modulazione nella voce. Vent’anni dopo Bruner altri studiosi affiancarono al concetto di scaffolding quello di fading, adeguatamente le situazioni che si incontreranno in un determinato contesto, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati10.

Secondo Bartolini “L’imitazione – lo conferma anche la recente scoperta dei neuroni specchio – si dimostra un canale diretto e incredibilmente potente. I nostri movimenti vivono di risonanze empatiche. Le azioni degli altri entrano nelle nostre in uno scambio continuo portando con sé anche quelle ragioni emotive e affettive di cui i gesti sono un veicolo privilegiato11.

Fatte le dovute distinzioni possiamo ravvisare anche nell’atteggiamento del docente la necessità di superare un momento iniziale in cui la relazione formativa è fortemente sbilanciata sul versante del maestro (al pari di quanto fa la madre devota descritta da Winnicott) rispetto al quale l’allievo sperimenta la pressoché totale dipendenza, per assumere piuttosto i caratteri della madre sufficientemente buona, la cui preoccupazione primaria consente di rispondere ai bisogni del bambino/allievo, di comprenderne gli stati emotivi, di guidarlo con amorevolezza “presentandogli il mondo, dosando opportunamente il livello della frustrazione all’interno di un holding environnement. Sostiene Bandura che “le convinzioni di efficacia svolgono un ruolo essenziale

nel primato dell’agentività personale per l’adattamento e il cambiamento umani. Se le persone non credono di poter produrre i risultati che desiderano e di poter prevenire quelli che recherebbero loro dei danni, sono poco incentivate ad agire o a perseverare di fronte alle difficoltà. Qualunque fattore svolga una funzione di guida e di motivazione si fonda nella convinzione essenziale di avere la capacità di produrre effetti con le proprie azioni”. 12

Ecco perché “lo spazio potenziale dipende dall’esperienza che conduce alla fiducia. Si può considerare sacro per l’individuo, in quanto è qui che l’individuo fa esperienza del vivere creativo13

Di John Bowlby, psicologo e psicoanalista britannico pressoché contemporaneo di Winnicott, è nota soprattutto la cosiddetta teoria dell’attaccamento, secondo la quale lo sviluppo dell’Io è strettamente legato alla natura delle prime relazioni significative del bambino. Se le figure parentali hanno elargito risposte efficaci, la capacità del piccolo di dare significato alle esperienze si sviluppa rafforzando il senso di sicurezza, la creatività e ponendo le basi per la costruzione di un’identità adulta sana ed equilibrata. Se invece queste prime relazioni hanno sottoposto il bambino ad eccessive frustrazioni o non sono state contenitive rispetto ai suoi bisogni emotivi, probabilmente verranno agite strategie difensive e non adattive, tali da condizionare lo sviluppo e la successiva realizzazione della persona.

Prendendo le distanze dalla prospettiva psicanalitica di cui non condivideva più l’assoluta centralità delle pulsioni ed avvicinandosi in un successivo momento all’approccio kleiniano, Bowlby individuò nelle esperienze di cura, affetto, prossimità e protezione le fonti del piacere infantile e pose al centro dei suoi studi sull’infanzia il bisogno primario di instaurare legami affettivi, più che quello legato al soddisfacimento dei bisogni fisiologici legati alla sopravvivenza.

La qualità dell’esperienza relazionale incide sulla tipologia dell’attaccamento in base alla sensibilità e disponibilità del caregiver prevalentemente identificato nella figura materna – e determina la formazione di modelli operativi interni (MOI), autentici prototipi delle relazioni, che andranno a definire i comportamenti sociali futuri quando, crescendo, l’attaccamento potrà interessare altri adulti di riferimento, sia interni che al di fuori del nucleo famigliare. I MOI possono esser definiti come strutture complesse che includono componenti percettive, affettive, motorie e cognitive e, sulla base di memorie relative alle interazioni con la figura di attaccamento, permettono di modellare il Sé, l’Altro ed il Sé con l’Altro. È grazie alla qualità di tali precoci esperienze che prenderanno forma le successive interazioni sociali, attivando modelli già immagazzinati sulla base delle aspettative e delle risposte ottenute a fronte delle richieste di cura e conforto avanzate.

L’attaccamento è “quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un altro individuo differenziato o preferito, ritenuto in genere più forte e più esperto, in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa molto evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure.14

A partire da questa definizione voglio provare ad individuare nel docente i tratti specifici che, in quanto strumento di cura educativa, gli permettono di diventare per l’allievo “una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto.”15

A tal proposito è necessario introdurre gli esiti della situazione sperimentale creata da una stretta collaboratrice di Bowlby, Mary Ainworth, per analizzare le tipologie di attaccamento fra bambino e madre, all’interno di un contesto controllato in cui si verificava una situazione di stress relazionale.

I dati emersi dalla strange situation permisero di identificare quattro forme di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente e disorganizzato. Senza entrare nei dettagli mi preme tuttavia evidenziare i caratteri della prima tipologia di attaccamento, quello che capacità di produrre effetti con le proprie azioniEcco perché “lo spazio potenziale dipende dall’esperienza che conduce alla fiducia. Si può permettere ai piccoli di individuare nel caregiver una base sicura da cui muovere per esplorare l’ambiente ed a cui ritornare in caso di bisogno, per essere accolti e confortati.

Ritengo di poter riscontrare anche nel docente tratti simili quando si rende stabilmente disponibile, pronto a rispondere in caso di bisogno per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando necessario, per sostenere piuttosto il cammino verso l’autonomia e l’indipendenza dei propri allievi. In questo modello interattivo possiamo tracciare anche il profilo dei discenti: sono sicuri di trovare accoglienza presso l’adulto; ne ricercano la vicinanza per essere rassicurati, ma tendono a riprendere la naturale spinta verso l’indipendenza; si sentono liberi di poter manifestare disagio nei momenti di difficoltà ed hanno fiducia nella presenza del docente, ma sanno attendere il soddisfacimento dei propri bisogni, tollerando la giusta dose di frustrazione.

Al contrario, un docente che non sia in grado di rappresentare una base sicura per i propri allievi contribuirà a renderli insicuri, a non sentirsi liberi di manifestare il proprio disagio né a ricercare aiuto di fronte al bisogno, mostrandosi indifferenti rispetto alla vicinanza del caregiver. Il rischio per questi ragazzi è che non abbiano fiducia nella disponibilità dell’adulto, che giungano a reprimere la manifestazione dei propri bisogni ed a dissimulare le emozioni provate. Spesso si può venir tratti in inganno dalla particolare ed apparente autonomia che mostrano, non fondata tuttavia su un sano ed equilibrato sviluppo psichico. Potremmo indicare anche le caratteristiche problematiche dell’allievo ambivalente che, a causa di risposte incoerenti da parte dell’adulto, mostra uno scarso livello di sicurezza interiore alternando atteggiamenti altrettanto incoerenti nei confronti del genitore o dell’insegnante, caratterizzati da un ansioso controllo reciproco. Stili comunicativi disconfermanti producono infatti, in chi li subisce, effetti disfunzionali, tanto più gravi se all’interno di una relazione asimmetrica come quella educativa.

Come trasmettere dunque protezione, senso di sicurezza, empatia e fiducia e non alimentare invece comportamenti instabili, eccessiva prudenza, timore dell’abbandono? Sono la prossimità non invasiva del docente e la capacità di cogliere i segnali provenienti dal discente che permettono a quest’ultimo di attivare condotte esplorative ed apprendere; risultano pertanto rilevanti doti quali “la capacità dell’insegnante di porsi in secondo piano, per così dire sullo sfondo, rispetto all’alunno: di motivarlo, di ascoltarlo, di valorizzarlo. Le esperienze vissute dall’alunno, le idee che esprime in classe, le sue stesse creazioni diventano tasselli del suo stesso apprendimento. Sia ai livelli elementari sia ai livelli avanzati.16

Possiamo riconoscere nel docente dinamico ed in quello statico descritti da Delfrati17 l’incarnazione pedagogico-didattica della base sicura ed insicura? Credo di sì nella misura in cui il primo agisce per sviluppare nei discenti “la capacità di adoperare le proprie risorse fisiche, intellettive, affettive, estetiche per dare voce, in forme sempre più coerenti con la propria crescita psicologia e culturale, alla propria musicalità, intesa come regno interiore dell’organizzazione simbolica del suono.”18

Il docente dinamico adotta quale strumento relazionale il dialogo, mentre quello statico recita monologhi; tanto il primo coinvolge l’allievo, lo responsabilizza assegnandogli il ruolo di protagonista del proprio percorso di apprendimento, quanto il secondo travasa conoscenze, auspica un apprendimento per impregnazione, limita l’autonomia a favore dell’obbedienza.

Rappresenta una base sicura il docente che sa palesare le proprie competenze, ma anche la propria identità; che imposta la relazione con gli allievi come occasione di cambiamento reciproco; che possiede espressività emotiva (“l’abilità con cui gli individui comunicano senza parole”), sensibilità emotiva (“l’abilità nel ricevere e interpretare la comunicazione non verbale degli altri”) e controllo sociale (“l’abilità che un individuo mostra nell’autopresentarsi socialmente e nel guidare la direzionee il contenuto della comunicazione nelle interazioni sociali”) 19 .

Concludo con un ammonimento sempre attuale di Johannella Tafuri secondo la quale è dovere di ogni insegnante “interrogarsi sullo stile educativo che possiede […] nel senso di un modo stabile di agire, interagire, intervenire, comportarsi secondo i diversi contesti di una situazione educativa.

Uno stile dal quale traspaiono, per un osservatore attento, i suoi gusti, i suoi problemi, la sua filosofia di vita e dell’educazione, in breve la sua identità che lo stile educativo rappresenta simbolicamente20 .

Note bibliografiche

1 Cfr Bruner J., The Process of Education, Harward University Press, Cambridge, 1960. Trad. it. Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture, Armando, Roma, 1966

2 Chiosso G., Teorie dell’educazione e della formazione, Mondadori Università, Milano, 2004, p.12

3 Ibid.

4 Demetrio D., Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici, La Nuova Italia, Firenze, 1999

5 Flavell J.H., Cognitive Monitoring, in (a cura di) Dickson W.P., Children’s oral communication skills, Academic Press, N.Y., 1981.

6 Winnicott D.W., Playing and Reality, Tavistock Publications, London, 1971, trad. it. Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974

7 Cfr. Delfrati, Il maestro ben temperato. Metodologie dell’educazione musicale, Curci, Milano, 2015, p.24-27

8 Collins, A., Brown, J. S., Newman, S. E., L’apprendistato cognitivo, in: Pontecorvo C., Ajello A. M., Zucchermaglio C. (a cura di), “I contesti sociali dell’apprendimento”, LED, Milano, 1995

9 Secondo lo psicologo russo la zona di sviluppo prossimale rappresenta il contesto in cui la persona più esperta può agire affiancando quella meno esperta, individuando la distanza tra il livello di sviluppo cognitivo presente e lo sviluppo potenziale a cui l’apprendista può arrivare con il supporto e la collaborazione del tutor.

10 Bandura A., Autoefficacia: teoria ed applicazioni, Erickson, Trento, 2000

11 Bartolini D., Contro l’immobilismo. Un approccio alla motricità strumentale, Musica Domani 137, dicembre 2005, p.10-15

12 Bandura A., op. cit., Prefazione all’edizione italiana

13 Winnicott D.W., op. cit.

14 Bowlby J., Una base sicura. Raffaello Cortina, Milano, 1989

15 Ibidem

16 Delfrati C., op.cit., p.20

17 Delfrati C., Fondamenti di Pedagogia musicale, EDT, Torino, 2008; Il maestro ben temperato, cit., 2015

18 Delfrati C., Fondamenti di Pedagogia musicale, op. cit., p.367

19 Hamann D.L, Lineburgh N., Paul S., 1998, ‘Teaching effectiveness and social skill development’, Journal of Research in Music Education, vol. 46, no. 1, pp. 96-98

20 Tafuri J., L’educazione musicale. Teorie metodi pratiche, EDT, Torino, 1995, p.19-20

Piera Bagnus

Docente di Pedagogia musicale presso l’ISSM Conservatorio “G.Cantelli” di Novara ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze dell’educazione e della formazione presso l’Università di Torino dopo la laurea in DAMS, i diplomi in Pianoforte ed in Didattica della musica presso il Conservatorio “ G.F.Ghedini” di Cuneo ed il Diploma in musicoterapia presso il Corso quadriennale della Pro Civitate Christiana di Assisi.

Da sempre attenta alle tematiche inerenti il rapporto tra musica, arte ed educazione considera l’espressione artistica un bene sociale al servizio dello sviluppo umano, in grado di favorire il benessere, contribuire alla formazione integrale della persona e del suo gruppo sociale.

Membro di vari gruppi di lavoro interistituzionali sulla formazione e l’aggiornamento psico-pedagogico e didattico dei docenti, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria, è particolarmente interessata alle dinamiche inclusive: in questa direzione vanno i suoi studi e le ricerche riguardanti l’integrazione scolastica e sociale delle persone disabili ed i contributi che, in tal senso, possono apportare con la loro specificità le discipline artistico-espressive.

Già cultore della materia per l’insegnamento di Pedagogia Speciale e docente di Metodologia dell’educazione musicale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, è autrice di libri, saggi, recensioni e numerosi articoli nonché relatrice in seminari e convegni nazionali ed internazionali.

BIBLIOGRAFIA

  • –  Bandura A., Autoefficacia: teoria ed applicazioni, Erickson, Trento, 2000;
  • –  Bartolini D., Contro l’immobilismo. Un approccio alla motricità strumentale, Musica Domani 137, dicembre 2005;
  • –  Bowlby J., Una base sicura. Raffaello Cortina, Milano, 1989;
  • –  Bruner J., The Process of Education, Harward University Press, Cambridge, 1960. Trad. it. Dopo Dewey:
  •  – il processo di apprendimento nelle due culture, Armando, Roma, 1966;
  • –  Chiosso G., Teorie dell’educazione e della formazione, Mondadori Università, Milano, 2004;
  • –  Delfrati C., Fondamenti di Pedagogia musicale, EDT, Torino, 2008;
  • –  Il maestro ben temperato. Metodologie dell’educazione musicale, Curci, Milano, 2015;
  • –  DemetrioD.,Educatoridiprofessione.Pedagogiaedidattichedelcambiamentoneiserviziextra- scolastici, La Nuova Italia, Firenze, 1999;
  • –  Flavell J.H., Cognitive Monitoring, in (a cura di) Dickson W.P., Children’s oral communication skills, Academic Press, N.Y., 1981;
  • –  Winnicott D.W., Playing and Reality, Tavistock Publications, London, 1971, trad. it. Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.