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Tra gesto e suono

corrispondenze, intrecci, relazioni alle origini della motricità strumentale.

Donatella Bartolini

30 Settembre 2019

A volte accade così.

Ha 6 o 7 anni e, timoroso, entra per la prima volta nell’aula di strumento; la madre (più raramente il padre) lo accompagna. Rimasto solo, il bambino cerca una sistemazione che gli sembra adatta, una sedia laterale ad esempio. Evita accuratamente il panchetto del pianoforte: lui non sa suonare! Percepisce esattamente una distanza incolmabile tra quello che sa fare, gli piace fare ed è abituato a fare nella sua vita quotidiana, e il compito che lo aspetta. Se fosse completamente a suo agio non si siederebbe affatto, comincerebbe a esplorare la stanza (ci sono tante cose attraenti… strumenti, colori, tappeti, panchette per arrampicarsi e guardare dentro il pianoforte) e naturalmente ad “assaggiare” il pianoforte.

Ma non sempre i piccoli sono così timidi, alcuni sono agitati, altri spavaldi e perfino audaci e non si intimoriscono affatto, altri camuffano l’imbarazzo o l’incertezza con atteggiamenti esuberanti, temerari, arditi. Eppure la distanza tra le proprie abilità e lo strumento è percepita molte volte con chiarezza ed è possibile leggerla da tanti piccoli (o grandi) segnali, come appunto quello di evitare di sedersi al pianoforte. Ogni buon insegnante si preoccupa di superare questo primo momento, mettere il piccolo a proprio agio, accoglierlo e instaurare con lui un rapporto di fiducia; quando poi la lezione è svolta in gruppo, tutto è ovviamente più facile.

 

 

Quindi si comincia. Il percorso è lungo: la postura, la posizione delle mani, l’“impostazione”, le “tecniche”, e poi la lettura, il ritmo… Niente di tutto questo fa parte delle sue conoscenze e soprattutto niente sembra in grado di vantare legami o relazioni con le sue abilità pregresse. Così, tutto deve iniziare da zero.

Sfogliando molti metodi pianistici si ha proprio la netta impressione di una fondazione dal nulla. Il primo approccio è costellato da raccomandazioni, prescrizioni, divieti. Confrontiamo ad esempio due best sellers della didattica pianistica, lontanissimi tra loro nel tempo e nello spazio: il primo tratto da Vorschule im Klavierspiel für Schüler des zartesten Alters – op. 101 del compositore tedesco Ferdinand Beyer la cui prima edizione risale al 18501 –, e il secondo dal metodo di James Bastien – un vero successo editoriale intercontinentale2 la cui prima uscita si può approssimativamente far risalire alla metà degli anni ‘60.

 

 

F. Beyer recita così3: “L’allievo una volta seduto al pianoforte dovrà assumere col corpo un atteggiamento naturale, avendo cura di tenere i gomiti leggermente aderenti alla persona ed alla stessa altezza della tastiera. Il palmo della mano, dolcemente inclinato verso il pollice, non sarà che la continuazione della linea dell’avambraccio. Le dita staranno piuttosto allungate, pur avendo la punta rivolta al tasto e dovranno articolarsi in modo da produrre un movimento di percussione verticale, evitando di dare al palmo della mano qualsiasi scossa. Nei seguenti esercizi si faccia attenzione perché il dito si alzi nel momento preciso in cui l’altro fa risuonare un nuovo tasto e perché il movimento si compia con molta eguaglianza, con precisione e da principio molto lentamente. Si osservi infine che il tocco non risulti troppo forte, affinché la mano e le dita non subiscano contrazioni nervose che darebbero luogo ad un’esecuzione pesante.”4 E aggiunge: “Ogni numero dovrà essere ripetuto sino che l’insegnante non sia completamente soddisfatto.”5

Più di cento anni dopo il tono è certamente meno distaccato e più affabile, il testo di J. Bastien si rivolge direttamente all’allievo: “Siediti diritto di fronte al pianoforte. Appoggia bene i piedi sul pavimento. Se non riescono a raggiungere il pavimento, è molto utile appoggiarli su un poggiapiedi o dei libri mentre fai esercizio. Siediti abbastanza in alto, in modo da raggiungere comodamente la tastiera.

 

 

Hai in casa uno sgabello per il pianoforte oppure una sedia la cui altezza sia regolabile? Se no, potrai usare dei cuscini o dei libri che ti aiutino a sedere all’altezza corretta quando fai esercizio. […] Tieni le dita in una comoda posizione curva. Immagina di tenere una palla in ogni mano. Questo è il modo corretto di curvare le dita per suonare il pianoforte. I tuoi polsi devono trovarsi allo stesso livello delle braccia” 6.

Nel tempo dunque si è progressivamente imposto un mutamento di registro: le indicazioni si sono ridotte, le richieste decisamente limitate, l’autorità dell’insegnante addolcita, smussata. A ben vedere però la relazione didattica sembra rimanere immutata. La centralità dell’insegnante non è minimamente intaccata, è sempre l’insegnante che dirige il percorso educativo, lo plasma, valuta, sceglie, decide. Le capacità cognitive, logiche, immaginative, critiche e motorie che ogni allievo porta con sé al primo contatto con lo strumento rimangono estranee a tutto il processo di apprendimento. Il piccolo alunno non ha voce in capitolo, non ha strumenti per partecipare, giudicare, analizzare. Quindi dovrà compiere i suoi esercizi – spesso straordinariamente simili col passare dei decenni –, cercare di assumere posizioni predeterminate, e ripetere con pazienza e costanza le formule proposte dal metodo prescelto. Al massimo gli verrà concesso di scegliere quali brani studiare e quali no, manifestando blandamente i propri gusti di genere, gusti che ogni insegnante corteggia avidamente pur di ottenere qualche manciata di minuti di studio in più. Inalterata rimane anche una concezione della motricità come abilità peculiare, specifica e settoriale, priva di legami con ogni altra competenza acquisita in precedenza.

 

 

Accettata questa premessa, il contatto con lo strumento dunque non può che partire da zero. Suonare è un’attività estremamente complessa, sono infinite le cose che compartecipano all’esecuzione anche di un piccolo brano musicale. La soluzione adottata dalla didattica tradizionale – quella che sembra essere l’unica possibile – è di sciogliere questa complessità e concentrarsi su di un elemento alla volta. Per la lettura ci si limita a pochissime note – in qualche caso sventurato a una sola nota – , il ritmo è annullato per essere sostituito da una ripetizione isocrona, ogni segno dinamico è bandito. Dal punto di vista motorio ci si concentra su pochissime parti del corpo, generalmente le dita, mentre ciò che non partecipa direttamente alla produzione del suono non viene preso in considerazione7. Talvolta, ignorando il piacere del movimento, del salto, della velocità, del guizzo energetico tipici della motricità infantile, si consiglia addirittura di immobilizzare interi settori articolari8. Alcuni insegnanti invece, pur di non appesantire l’allievo con troppe richieste, tralasciano ogni riflessione sulla motricità limitandosi a richiedere l’esecuzione delle note scritte.

Scarnificata, semplificata, impoverita, ogni proposta sonora perde così senso, fascino, e soprattutto interesse e capacità di coinvolgimento. L’iter di apprendimento prosegue sommando un elemento all’altro: pian piano aumentano le figure ritmiche, si inizia ad intravedere qualche indicazione dinamica, qualche articolazione… contraddicendo il postulato gestaltico, si cerca di ricostruire l’insieme dalla somma delle singole parti. Le relazioni – quelle relazioni che costituiscono l’unità e l’essenza stessa dell’evento sonoro, che vincolano gli elementi e li stringono ad una direzionalità espressiva – sono rimandate o lasciate a tempi migliori.

Come è ormai ben noto, i bambini fin da piccolissimi non solo amano la musica, reagiscono al suono, sorridono e ascoltano, ma soprattutto fanno musica e la fanno proprio partendo da queste unità.

L’origine delle produzioni musicali infantili è infatti estremamente precoce. Nella relazione di attaccamento, lo scambio comunicativo avviene attraverso il contatto fisico, il gesto, il movimento, l’intonazione verbale linguistica e prelinguistica. Questi elementi costituiscono la base del “dialogo tonico-sonoro” tra la madre e il bambino. Nei rapporti diadici precoci si sperimenta quella che Colwyn Trevarthen9 definisce “musicalità comunicativa” , un “duetto di movimenti e suoni che diffonde motivazioni e stati intenzionali fra due persone”10. Sin dalla nascita, secondo Daniel Stern, tempo, spazio, intensità, movimento, direzione e intenzionalità concorrono ogni volta a formare un profilo di attivazione peculiare: “la forza, la velocità e la fluidità di un gesto; il profilo temporale e l’enfasi accordati a una frase o persino a una parola nel linguaggio parlato; il modo in cui si schiude un sorriso e il tempo perché si dissolva; il modo di cambiare posizione su una sedia; l’andamento temporale e la durata di un’alzata di sopracciglia per esprimere interesse”11 sono tutti profili specifici che – ripresi e articolati in modalità sensoriali diverse – rappresentano le radici alla base di ogni esperienza di sé e degli altri. I profili di attivazione quindi – unità gestaltiche di senso, amodali, indipendenti cioè dalle diverse modalità percettive – unificano la percezione sonora e tonica e rappresentano le fondamenta su cui poggia l’origine del senso musicale.

Esplosivo, pulsante, prorompente, oscillante… sono questi alcuni degli aggettivi che Stern propone per descrivere i diversi profili temporali. Un suono esplosivo dunque avrà delle caratteristiche dinamiche e motorie che il bambino conosce, che ha sperimentato con la voce, con il movimento, con il corpo intero. Una carezza prevede una precisa evoluzione di forze, una “forma”, e corrisponde ad un inviluppo temporale che può esprimersi in un gesto come in una parola e vivere in un suono che lentamente prende corpo e poi si assottiglia di nuovo. Ogni bambino è in grado di produrre esplosioni e “carezze” sonore con la voce e, crescendo, è capace di adattare il proprio gesto anche allo strumento, dapprima in maniera grossolana, poi sempre più precisa ed efficace.

È possibile quindi rovesciare la prospettiva tradizionale, settoriale ed elementarista ponendosi in ascolto della unità e direzionalità dell’evento musicale, della sua finalità espressiva, e in base a queste orientare la ricerca sonora. In fondo bastano due note – inventate, scritte, improvvisate – per giocare con un profilo dinamico, per modulare gesto e suono alla ricerca di veemenza, dolcezza, astio, rabbia o stanchezza. La ricerca “tecnica” può partire da qui. Una ricerca avventurosa, sempre diversa per ogni allievo.

L’insegnante può favorire enormemente questo percorso di apprendimento solo se – rinunciando ai propri atteggiamenti prescrittivi e combattendo ogni ansia pedagogica – si ponga in ascolto, pronto ad accogliere, far emergere e valorizzare proprio queste competenze comunicative, olistiche e globali.

Riducendo e modulando lo spazio dedicato alla notazione tradizionale, e aprendo invece opportunità di esercitare le competenze – motorie, gestuali, comunicative e musicali – già presenti prima di ogni percorso di apprendimento specifico strumentale è possibile accorgersi di quante cose sanno fare i nostri piccoli allievi: alcuni sanno compiere salti di grande precisione, altri non hanno nessuna difficoltà a fare trilli o ad eseguire movimenti brevi ma velocissimi… e tutti sanno articolare gesto e suono in unità di senso musicale. Una programmazione flessibile, una stimolazione aperta e coraggiosa permette di accogliere le caratteristiche psicologiche, ma anche motorie, di ciascun allievo, renderle pian piano sempre più consapevoli, declinarle, variarle per ritrovare così nel contatto con lo strumento le radici del gioco sonoro.

1 Ne sono state contate 159 edizioni diverse in 13 lingue. Anche se questi conteggi sono sempre approssimativi, danno un’idea del successo riscosso in passato e che ancora continua a riscuotere il metodo di F. Beyer.

2 Il metodo Bastien è articolato in una interminabile serie di pubblicazioni, solo nel catalogo fornito da Rugginenti (l’importatore in Italia) sono presenti più di 450 testi a firma di James Bastien e della moglie Jane Smisor Bastien.

3 Le numerose edizioni che si sono succedute nel tempo hanno cercato di adeguarsi al gusto degli insegnanti, alla praticità d’uso e alle convenzioni del paese di accoglienza. Per questo troviamo grandi differenze tra una edizione e l’altra: i revisori sono spesso intervenuti in maniera ben poco filologica sulla fonte originale!

4 F. Beyer, Scuola preparatoria del pianoforte, Ricordi, Milano, 1918, p. 7.

5 Ibidem.

6 J. Bastien, Il pianoforte per il piccolo principiante. Preparatorio A, Kjos Music Company, San Diego, 1994, p. 4.

7 Interessante a questo proposito il metodo, oggi ormai totalmente dimenticato, di Ermenegildo Paccagnella. Dato alle stampe nel 1926, il Metodo esordisce proponendo esercizi che coinvolgono il corpo intero. Per approfondimenti v. D. Bartolini, Dominare la schiava materia, «Quaderni di Pedagogia e Comunicazione Musicale», 5–2008.

8 Si pensi alla pratica ottocentesca di tenere un libro sotto l’ascella o di utilizzare marchingegni come il chiroplasto o il dactylion per impedire alla mano di compiere movimenti indesiderati. Per una disamina di tutte le macchine ideate nell’Ottocento ad uso e consumo dei desideri di compostezza, forza e indipendenza delle dita dei pianisti v. D. Bartolini, L’infallibile mezzo meccanico. Il mito della macchina nella tecnica pianistica dell’Ottocento, «Musica/Realtà», 97-2012.

9 C. Trevarthen, The musical art of infant conversation: narrating in the time of sympathetic experience, without rational interpretation, before words, «Musicae Scientiae» 12.1-2008.

10 D. Stern, Le forme vitali: l’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo, Cortina, Milano, 2011, p. 44.

11 Ivi, pp. 6-7.

Donatella Bartolini

rivolge da anni una particolare attenzione al rinnovamento delle metodologie educative in ambito strumentale e musicale. Con la convinzione che la ricerca didattica non possa disgiungersi da una sperimentazione di nuovi repertori, ha coniugato lo studio pedagogico con le nuove prospettive offerte dalla produzione musicale contemporanea.

Si è occupata di progetti interdisciplinari arte-musica collaborando con importanti istituzioni museali per l’arte contemporanea in collaborazione con le quali ha realizzato corsi, incontri, conferenze e laboratori dedicati a un pubblico sia infantile che adulto.

Ha curato l’edizione italiana dei testi più innovativi apparsi sul panorama editoriale nazionale e internazionale dedicati alla didattica strumentale: H. Bojé, Il pianoforte, Ricordi (Universal), Snorri Sigfus Birgisson Piano Pieces, Carisch-Siem (Steinabær), C. Hempel, Pianoforte in due, Carisch-Siem (Schott), Bruce-Weber, Il violino felice, Carisch-Siem (Schott), F. Emonts, Metodo europeo, Schott (Schott).

In collaborazione col compositore P. Barontini ha recentemente pubblicato un nuovo metodo per lo studio del pianoforte La valigia dei suoni edito da Siem-Carisch.

È docente di Pedagogia musicale al Conservatorio “G. Puccini” di La Spezia.

Bibliografia più che essenziale

D. Bartolini, L’infallibile mezzo meccanico. Il mito della macchina nella tecnica pianistica dell’Ottocento, «Musica/Realtà», 97-2012.

D. Stern, Le forme vitali: l’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo, Cortina, Milano, 2011.

C. Trevarthen, The musical art of infant conversation: narrating in the time of sympathetic experience, without rational interpretation, before words, «Musicae Scientiae» 12.1-2008.

D. Bartolini, P. Barontini, La valigia dei suoni, Carisch, Milano, 2014.

J. Bastien, Il pianoforte per il piccolo principiante. Preparatorio A, Kjos Music Company, San Diego, 1994.

F. Beyer, Scuola preparatoria del pianoforte, Ricordi, Milano, 1918.

G. Kurtág, Játékok, EMB, Budapest, 1979.

S. Lebert, L. Stark, Klavierschule für den systematischen Unterricht, Stuttgart, 1858.

G. Meyer-Denkmann, Körper-Gesten-Klänge, PFAU, Saarbrücken, 1998.

P.J, Milchmeyer, Die wahre Art das Pianoforte zu spielen, Meinhold, Dresden, 1797.

U. Molsen, Klavier-Boutique. Eine Schule mit Pfiff, Sikorski, Hamburg, 1983.

M. Morhange-Motchane, Le petit clavier, Salabert, Paris, 1994.

E. Paccagnella, Metodo per lo studio del pianoforte, 3 voll, Nuova didattica e pedagogia musicale, Milano, 1926.

K. Runze, Two hands – Twelve notes, Schott, London, 1977.

U. Tanaka, Piano methode, Ongaku no tomo, Tokyo, 1962.

E. Van de Welde, Méthode rose, Van De Velde, Fondette, 1992.